Occhi e professionalità
Secondo giorno in chirurgia pediatrica.
Vorrei parlarvi di occhi e professionalità.
Oggi ho concentrato il mio reportage sui dettagli e soprattutto sugli occhi. Ma non perché sono un figo e pertanto volevo fare qualcosa di particolarmente figo. Ero semplicemente nel panico più totale. Quindi mi sono detto “Andrea, respira, non pensare che sei dentro una sala operatoria e concentrati dapprima sui dettagli”.
Ho respirato.
Ho staccato il cuore (apparentemente).
Ho guardato gli occhi dei professionisti che avevo attorno.
Ho visto occhi attenti, mani muoversi elegantemente, gesti calcolati.
Prima volta dentro una sala operatoria, il giorno dei 16 anni di mia figlia Sara. Mi porterà fortuna.
Seguo con attenzione i movimenti dei dottori e delle infermiere, uno perché voglio essere dentro all’azione (come fa figo dire nelle pubblicità delle pay-tv) e due perché non voglio comunque rompere le palle a chi sta operando su un bambino. Anche perché lasciatemelo dire, le palle di questa gente qua, sono davvero cubiche, non lo dico perché fa “trendy” e “Gray’s Anatomy” (che non ho neanche seguito) ma davvero avevo il timore di risultare un pirletta in confronto. Poi ovviamente non volevo fare la figura-del-giorno e farmi cacciare come farebbe Briatore: “sei fuori!”. Insomma, occasione da non perdere, che non volevo perdermi.
Però oggi mi sono nuovamente reso conto di essere un professionista tra professionisti. Adesso si, me la tiro. Ma non gratuitamente, c’è un senso.
Oltre a saper gestire le mie emozioni, schiacciare correttamente i pulsantini della mia Canon e far uscire una bella foto, ho capito che non voglio fare lo scatto “shock”, ho capito che rispetto la privacy delle persone nelle situazioni più delicate. RISPETTO. E pur non mostrando immagini “shock”, immagini esplicite, pur essendo al centro dell’azione, so canalizzare lo sguardo, so far capire cosa succede senza farlo vedere.
Insomma, le paparazzate non fanno per me. Rispetto (gamba sinistra) e discrezione (gamba destra). Se manca uno dei due, cado.
Poi ho tolto i pastrani verdi, le mascherine e i gambali e sono tornato in reparto, e gli sguardi dei genitori che chissà cosa pensavano di questo fotografo sciacallo, magari maniaco. Eppure faccio questo lavoro di mestiere (sinonimo rafforzativo), ci metto la mia faccia e il mio nome. Non vorrei mai rovinare la mia faccia e il mio nome, quindi faccio le cose per bene. Rispetto.
Sono uscito per una boccata d’aria. Ho chiamato mia figlia per farle gli auguri. Ma squillava a vuoto. Poi un suo messaggio “Papi sono a scuola, non posso rispondere”.
Noi “papi” sempre ad aspettare…